“Il misantropo di Molière”

La Psicoanalisi, n. 27, Astrolabio, Roma 2000

Tra le riflessioni che Lacan dedica espressamente al tema dell’odio, nello scritto Discorso sulla causalità psichica (nota 1), all’interno di una elaborazione teorica più complessa che non starò a riassumere in questa sede, Lacan evoca anche l'”Alceste di Molière”, il protagonista de Il misantropo. (nota 2)

Il misantropo è una commedia che è stata scritta e rappresentata da Molière nel 1666, pochi anni prima della sua morte. A differenza de Le furberie di Scapino, che si rifà direttamente alla commedia dell'arte italiana, Il misantropo è un esempio di come Molière riesca a far ridere il pubblico mettendo in scena dei personaggi in preda a delle passioni profonde. Altri esempi di questo genere, forse più conosciuti, sono L'avaro e Il malato immaginario. Ne Il misantropo, Molière mette in scena un personaggio che, per definizione, odia tutti gli esseri umani.

Nel sottotitolo dell’opera, egli dà già una indicazione diagnostica relativa al protagonista: il misantropo, infatti, viene definito come un “Atrabilaire amoureux”, un innamorato melanconico. Facendo proprio un termine della scienza medica del suo tempo, Molière propone una figura del misantropo come una contraddizione in termini, una sorta di ossimoro. Se, infatti, già nel ‘600, la medicina considerava la melanconia – il cosiddetto “umor nero” – come contraddistinta da quelle manifestazioni sintomatiche che oggi si riconoscono nella condizione del depresso, è difficile immaginare come un personaggio depresso, e, al tempo stesso, innamorato, possa essere anche il protagonista di una commedia.

Connotare il misantropo come un personaggio malato, comunque, costituisce lo stratagemma utilizzato da Molière per poterlo mettere in scena e farlo parlare. A causa della sua malattia, infatti, egli può dire quello che pensa senza offendere la morale comune e, in particolare, la corte che non avrebbe mai accettato le critiche pungenti di un misantropo “sano”. L’opera Il misantropo – come molte altre sue commedie - è servita a Molière per fare una critica severa dei costumi della corte e della nobiltà del suo tempo. 

La trama del testo

Il misantropo è un'opera divisa in 5 atti che rispettano le unità classiche di tempo, luogo ed azione. L'azione, in effetti, si svolge in un solo luogo - un salone del '600 - e copre una durata di ventiquattro ore. Il rispetto di tali unità, molto comune all’epoca di Molière, permette di mostrare, in un breve lasso di tempo e in unico luogo, i principali conflitti dentro cui sai dibatte il protagonista. Nei cinque atti del testo, infatti, il personaggio principale, Alceste, si trova alle prese con la società del suo tempo, con le sue abitudini e le sue regole e - come in ogni commedia che si rispetti - con la donna amata. Gli altri personaggi più importanti della commedia sono Philinte, l'amico di Alceste, e Célimène, la donna che egli ama.

Alceste è un nobile che frequenta il salone di Célimène, una giovane nobildonna vedova di cui egli è, per l’appunto, innamorato. Nel salone di Célimène, come in molti altri saloni dell'epoca, si ritrovano dei nobili che discutono di vari argomenti, dai più seri ai più faceti, e che si dedicano, in particolare, alla pratica del pettegolezzo.

Alceste si differenzia da questi nobili perché, benché li frequenti e benché sia innamorato di una donna che, in quello stesso ambiente, era nota, oltre che per la sua avvenenza e la sua indipendenza, proprio per la sua maldicenza, è un personaggio onesto e serio. Egli, infatti, non tollera né i pettegolezzi né, tanto meno, le lodi gratuite ed esagerate, non sopporta l'ipocrisia e la vanità dell’ambiente di corte in quanto vorrebbe che tutti gli uomini fossero sinceri. Egli vorrebbe che " en homme d'honneur on ne lâche aucun mot qui ne parte du coeur " (vv. 35-36), che nessuno, cioè, da uomo giusto, dica qualcosa che non venga dal cuore. C'è da chiedersi, allora, cosa ci faccia Alceste in un salone come quello di Célimène!

In effetti, Alceste si presenta da Célimène per due motivi fondamentali : da un lato egli vuole chiederle di dichiarargli il suo amore e, dall’altro, vuole comunicare al suo amico Philinte la sua decisione di abbandonare la vita di corte.

Philinte è l'unico amico di Alceste e, come quest’ultimo, non ama l'ipocrisia e la corruzione del suo tempo. A differenza di Alceste, però, Philinte è l'espressione stessa del buon senso o, per meglio dire, di quello che era l’ideale etico del “grand siècle”, cioè dell’ “equilibrio delle passioni”. Egli sa che la vita di società ha delle regole ben precise – a quell’epoca si trattava soprattutto del rispetto delle " bienséances ", cioè dell'etichetta – alle quali non ci si può sottrarre e che, pertanto, egli accetta di buon grado.

Nella commedia, Alceste, in varie situazioni, si trova a discutere con Philinte della legge dell’Altro ma, ogni volta, egli rifiuta di piegarsi alla morale comune. Alceste, infatti, fa un ragionamento molto semplice: dal momento che la vita di società è frivola e, perciò, corrotta, io, che, invece, sono onesto e sincero, io che dico solo parole che vengono dal cuore, io che esprimo quello che realmente desidero, la abbandono! Alceste, cioè, decide di abbandonare la vita di società perché ha scelto, sostenuto da una sorta di giustificazione di ordine etico, un mondo in cui esiste l’Altro dell’Altro.

Tutto, dunque, sembrerebbe – in un certo senso - filare liscio (la commedia, però, a questo punto, sarebbe già finita! ) se non che Alceste non è un personaggio così coerente come vorrebbe far credere e, soprattutto, come egli crede di essere. Philinte, infatti, sin dall'inizio dell'opera, fa notare ad Alceste le sue continue contraddizioni: Alceste, che detesta l'ambiente frivolo ed ipocrita di corte, di fatto lo frequenta e, in particolare, si è invaghito proprio di una donna come Célimène. Tutti a corte sanno, infatti, che Célimène ama essere circondata da molti spasimanti che intrattiene senza mai impegnarsi, è frivola e, per di più, è conosciuta ed apprezzata proprio per l'ironia e l'arguzia dei suoi pettegolezzi.

L’uomo che si ritiene “onesto e sincero”, quindi, si è innamorato proprio di quello che dice di detestare maggiormente. Nonostante, però, Philinte mostri ad Alceste la contraddizione evidente tra quello che egli dice e quello che vuole, quest’ultimo è sempre convinto di dire il vero. Ed è proprio in nome della sua presunta onestà e sincerità che Alceste cerca di persuadere Célimène ad abbandonare la vita corrotta di corte e a vivere con lui in solitudine.

Questa, quindi, è la trama della commedia che riesce a far ridere il pubblico perché, da un lato Alceste dice quasi sempre il contrario di quello che fa e, dall’altro, perché molte situazioni comiche ed impreviste rendono difficoltosa la realizzazione pratica dei suoi propositi. Alla fine della commedia, comunque, Alceste, esasperato da tutta una serie di impedimenti e, soprattutto, dal fatto di essere entrato in possesso di una lettera che è la prova del tradimento di Célimène, riesce – finalmente - a metterla con le spalle al muro. Egli, cioè, pretende che lei gli dichiari il suo amore e promette di perdonarla a condizione di seguirlo in quello che egli definisce come il suo deserto. (Di fatto, nel '600, il “deserto” di cui parla Alceste non corrispondeva proprio al deserto di un eremita bensì alla villa di campagna in cui i nobili parigini si ritiravano quando volevano trovare un po’ di quiete e tranquillità.)

Célimène, in ogni caso, rifiuta la proposta di Alceste o, per meglio dire, accetta di sposarlo perché lo ama ma si rifiuta di rinunciare ai piaceri e alle comodità che la vita di corte le offre. Alceste reagisce abbandonando la scena convinto che questa sia l’unico atto che ormai gli resta da compiere. Egli, però, non se ne va addolorato per il rifiuto ricevuto da Célimène, non se ne va in qualche modo diviso, ma - così come era entrato in scena – se ne va sbraitando contro il mondo intero colpevole di tutti i vizi peggiori.

Le sue ultime battute, infatti, sono: 

 

Trahi de toutes parts, accablé d'injustices,
Je vais sortir d'un grouffre où triomphent les vices,
Et chercher sur la terre un endroit écarté
Où être homme d'honneur on ait la liberté (vv.1803-1806).

 

Tradito da ogni parte, oppresso da ogni sorta di ingiustizia
Io uscirò da questo baratro in cui trionfano i vizi
E cercherò sulla terra un luogo appartato
In cui si sia infine liberi di essere onesti. 

 

L’odio per gli uomini 

Se analizziamo in particolare il personaggio di Alceste, possiamo notare che il suo discorso si contraddistingue per la ricorrenza di alcuni temi che hanno, fra loro, molti elementi in comune.

- Alceste afferma di odiare gli uomini perché non sopporta la loro ipocrisia e la loro vanità. In particolare egli dice:ù

 

Non, je ne puis souffrir cette lâche méthode
Qu’affectent la plupart de vos gens à la mode;
Et je ne hais rien tant que les contorsions
De tous ces grands faiseurs de protestations,
Ces affables donneurs d’embrassades frivoles,
Ces obligeants diseurs d’inutiles paroles,
Qui de civilités avec tous font combat,
Et traitent du même air l’honnête homme et le fat. (vv. 41-48)

......
Je veux qu’on me distingue .... (v. 63).

 

No, io non posso sopportare questo sistema vile, Ostentato da quasi tutta questa gente alla moda;
E non c’è niente che io odi tanto quanto le contorsioni
Di questi grandi funamboli delle dichiarazioni d’amicizia, Questi affabili dispensatori di abbracci frivoli,
Questi accattivanti dicitori di parole inutili,
Che con tutti fanno a gara a chi fa più cerimonie,
E che trattano allo stesso modo il galantuomo e il cafone.

......
Voglio essere distinto .... 

 

E’ evidente, quindi, - anche da queste poche battute –, quale sia, in realtà, il conflitto che anima il rapporto di Alceste con l’altro. Egli, cioè, pretende che l’altro gli restituisca la sua identità immaginaria, che lo distingua da tutti gli altri e lo riconosca nella sua particolarità. 

- Alceste ama Célimène. Nonostante Célimène rappresenti l’espressione più pura di quanto Alceste dice di detestare, egli ammette di esserne innamorato e di non poterci fare nulla : 

 

Je confesse mon faible : elle a l’art de me plaire ;
J’ai beau voir ses défauts et j’ai beau l’en blâmer,
En dépit qu’on en ait, elle se fait aimer :
Sa grâce est la plus forte, et sans doute ma flamme
De ces vices du temps pourra purger son âme. (vv. 230-234)

 

Confesso il mio debole : ha l’arte di piacermi;
E io ho un bel vedere i suoi difetti e ho un bel rimproverarglieli
A dispetto di tutto, ella si fa amare;
La sua grazia è più forte di ogni altra cosa ma sono certo che il mio amore saprà
affrancare la sua anima da questi vizi del nostro tempo. 

 

 

Anche riguardo a Célimène, però, Alceste non smentisce il suo desiderio più intimo. Egli, infatti, è convinto di poter migliorare la sua natura e ambisce, ancora una volta, a modificarla a sua “immagine e somiglianza”. 

- Alceste ha un'ottima opinione di se stesso : egli, cioè, crede di aver sempre ragione perché ha la coscienza a posto, perché è il migliore fra tutti : 

Le ciel ne m’a point fait, en me donnant le jour,
Une âme compatible avec l’air de la cour ,
Je ne me trouve point les vertus nécessaires
Pour y bien réussir et faire mes affaires.
Etre franc et sincère est mon plus grand talent,
Je ne sais point jouer les hommes en parlant (vv. 1083-1088)

 

Il cielo, dandomi alla luce, non mi ha dotato
Di un animo compatibile con l’aria della corte
E so bene di non avere le qualità necessarie
Per emergervi e giovare ai miei interessi.
Il mio maggiore talento è essere franco e sincero,
Quando parlo non so ingannare la gente. 

 

In questo senso, quindi, si può capire come Alceste sia completamente preso dentro il suo delirio d’identità; egli, infatti, non è per niente un soggetto diviso. Accettare la legge del significante, accettare la divisione imposta dalla legge dell’Altro, infatti, per Alceste significa “soltanto” rinunciare al proprio io. Egli, di fatti, continua dicendo:

 

Hors de la cour .....
On n’a point à souffrir mille rebuts cruels
On n’a point à louer les vers de messieurs tels,
A donner de l’encens à madame une telle ... (vv. 1095-1097) 

Fuori dalla corte ...
Non si è costretti a subire sgarbi crudeli,
Non si devono lodare per forza le poesie del signor tale,
Né incensare la signora tal dei tali. 

 

Il narcisismo di Alceste 

Nello scritto Discorso sulla causalità psichica, Lacan scrive che Alceste

" .. è folle e che Molière lo mostra come tale, precisamente per il fatto che nella sua anima bella non riconosce di concorrere lui stesso al disordine contro cui insorge" 
J. Lacan, Op. cit., p.167 (nota 3). 

 Alceste, cioè, è folle perché è talmente identificato al suo Ideale dell’io da non accorgersi di essere egli stesso la causa del suo male. L’anima bella, quindi, non “piange se stessa” ma, al contrario, si arrocca su una posizione che mantiene estranei fra loro il giudizio e l’azione. L’anima bella di Alceste, in altri termini, vuole conservare a tutti i costi la propria supposta purezza rispetto a quello che considera essere il disordine del mondo.

Lacan, poi, continua scrivendo

"Preciso che è folle, non perché ama una donna che è civetta o lo tradisce .. ma perché è preso, nel padiglione dell'Amore, dallo stesso sentimento che guida il ballo in quell'arte dei miraggi in cui trionfa la bella Célimène, cioè quel narcisismo degli oziosi che costituisce la struttura psicologica del < mondo> in tutte le epoche, raddoppiato nel nostro caso da un altro narcisismo, che si manifesta in special modo in certuni per l'idealizzazione collettiva del sentimento amoroso".
J. Lacan, Op. cit., pp.167-168 (nota 4)

Per capire il senso di questa lunga frase è necessario tenere a mente alcuni concetti fondamentali e cioè il fatto che l’arte dei miraggi in cui trionfa Célimène è precisamente il narcisismo. Alceste, quindi, è preso dallo stesso sentimento a cui si aggiunge anche il narcisismo presente nell'idealizzazione collettiva della concezione dell’amore. Effettivamente l'ideologia dell'amore più in voga nei saloni letterari del '600 - e alla quale Molière fa spesso riferimento nelle sue commedie - è quella sviluppata da Madeleine de Scudéry; quest’ultima, nella sua opera Clélie, aveva elaborato la cosiddetta " Carte du Tendre", una sorta di pianta topografica del paese dell’Amore che mostra quali siano i tre tipi di sentimenti principali che possono condurre all’amore. Questa ideologia, in particolare, costituisce lo sviluppo logico della concezione cortese dell'amore che si contraddistingue – come Lacan spiega dettagliatamente nel suo Seminario VII – proprio per il suo carattere fondamentalmente narcisistico. In effetti, è proprio a questo tipo di concezione dell’amore che Lacan fa riferimento quando egli parla con ironia del " padiglione dell'Amore " (con la A maiuscola), cioè del piccolo chiosco che - come tanti altri chioschi a temi diversi - veniva costruito nelle grandi ville nobiliari del '600. Queste due forme di narcisismo, quindi, appartengono a tutti i personaggi dell’opera.

Il narcisismo di Alceste, invece, è molto più particolare: il suo narcisismo, cioè, - come dice Lacan - è più esigente perché, nonostante la sua profonda passione per Célimène - che riesce, di fatto, a fargli fare quasi qualsiasi cosa -, Alceste ha bisogno soprattutto di mostrare il proprio amore agli altri, vuole che gli altri siano testimoni dell’intensità e della sincerità del suo sentimento. In questo senso, quindi, Alceste arriva a dire a Célimène:

Ah ! rien n'est comparable à mon amour extrême,
Et, dans l'ardeur qu'il a de se montrer à tous,
Il va jusqu'à former des souhaits contre vous.
Oui, je voudrais qu’aucun ne vous trouvât aimable,
Que vous fussiez réduite en un sort misérable,
Que le Ciel, en naissant, ne vous eût donné rien,
Que vous n’eussiez ni rang, ni naissance,, ni bien,
Afin que de mon coeur l’éclatant sacrifice
Vous pût d’un pareil sort réparer l’injustice .. (vv. 1422-1430)

Ah, nulla è paragonabile al mio infinito amore,
E, nell’ardore di mostrarsi a tutti giunge
Persino a formulare degli auguri contro di voi.
Si, vorrei che nessuno vi trovasse bella e amabile,
Che voi foste ridotta a una condizione miserevole,
Che il Cielo non vi avesse dato niente alla vostra nascita,
Che non aveste né rango, né titoli, né beni,
Affinché il clamoroso sacrificio del mio cuore
Potesse riparare l’ingiustizia di una tale sorte.

 

L'unica vera passione di Alceste, quindi, - continua Lacan -, è quella di

".. dimostrare a tutti la propria unicità, foss'anche nell'isolamento della vittima in cui trova nell'ultimo atto la propria soddisfazione amaramente giubilatoria".
J. Lacan, Op. cit., p.168 (nota 5)

Alceste, in effetti, pur di mostrare la propria particolarità e superiorità rispetto agli altri, sceglie di abbandona il sipario “indossando” il mantello della vittima pura e incorrotta.
L'analisi di Lacan, però, non finisce qui: egli, cioè, spiega anche la motivazione che sta alla base di questa "peripezia". Il movente è precisamente ".. il meccanismo.. ( che si riferisce) .. all'aggressività suicidaria del narcisismo".(nota 6) L'aggressione suicidaria del narcisismo, in particolare, dipende dall'effetto alienante prodotto – nello stadio dello specchio – dall’identificazione immaginaria. Se prendiamo l'esempio di Alceste, in particolare, possiamo notare che la sua aggressività si manifesta secondo due modalità fondamentali:

- da un lato, egli è aggressivo nei confronti dell’altro che gli restituisce un'immagine di sé che non sopporta, quella di un vanitoso che – come gli altri - vuole essere “distinto”. Alceste non sopporta questa immagine perché non corrisponde alla sua immagine ideale dell'uomo onesto e sincero che crede di essere;

- dall'altro, Alceste è aggressivo nei confronti di se stesso perché l'immagine ideale a cui si identifica non corrisponde alle passioni che, in realtà, muovono le sue azioni e le sue parole.

In entrambi i casi, comunque, - continua Lacan -, “ i discorsi da furioso che pronuncia ..tradiscono manifestamente che cerca di colpire se stesso”.(nota 7)

L’aggressività di Alceste e l’odio che egli dice di provare per gli esseri umani, quindi, costituiscono la sua risposta di fronte al “parlêtre” proprio della condizione umana; egli denuncia l’ipocrisia della parola, del linguaggio, che, in quanto tale, produce un soggetto diviso, in perdita. Alceste, di fatto, non riesce ad accettare questa perdita originaria di godimento, non accetta la castrazione in quanto è completamente identificato alla sua immagine ideale di “uomo giusto”. Egli, cioè, coglie l’ipocrisia del linguaggio nel discorso dell’Altro ma non accetta di essere egli stesso sottoposto alla medesima legge, sogna un linguaggio sincero che riesca a dire il reale della Cosa.

Come scrive Philippe Lacadée, (nota 8) il misantropo è “una sorta di padre della virtù, una composizione di anima bella e di serietà che parla solo per fare la morale agli altri ... la sua missione è quella di riformare il genere umano, di salvare gli uomini contro loro stessi e questo al prezzo del proprio sacrificio”. In realtà, Alceste non può sottrarsi alla perdita imposta dal fatto di essere nel linguaggio e, infatti, il suo discorso – come si può cogliere anche nei versi che ho citato – contraddice in ogni momento il suo ideale moralistico, “ .. la sua malattia è una malattia del linguaggio”(nota 9).

Per questo motivo Lacan termina la sua riflessione su Alceste ironizzando sul fatto che, con la sua scelta di abbandonare il mondo, egli "non ha fatto altra vittima che se stesso". Non si può fare altro, allora, se non augurare ad Alceste di trovare quello che cerca e cioè un luogo appartato e solitario in cui sia infine “libero” di essere onesto!

Così come Molière ha fatto del "misantropo in società" un personaggio altamente comico, analogamente, Lacan - sebbene da una prospettiva differente – mostra l’illusione fondamentale di Alceste che vuole abbandonare la scena dell’Altro convinto di poter essere onesto, di poter infine uguagliare la sua immagine ideale, in solitudine, al di fuori di qualsiasi legame sociale, nel deserto, senza l’Altro. 

1  J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica, in Scritti, Einaudi, Torino, 1974. 2 Molière, Le misanthrope, Classiques Larousse, Paris, 1971.
3  J. Lacan, Op. cit., p.167.
4  J. Lacan, Op. cit., pp.167-168.
5  J. Lacan, Op. cit., p.168.
6  J. Lacan, Op. cit., p.168.
7  J. Lacan, Op. cit., p.169.
8  P. Lacadée, Les fondements de la haine, in Pourquoi l’agressivité?, Cahiers Psychanalytiques de l’Est, n. 8, automne 1999, p. 84.
9  P. Lacadée, Op. cit., p. 85.